Intervento autore del libro
INTERVENTO DI EMANUELE BOFFI
AL CONVEGNO DI PRESENTAZIONE DEL LIBRO
“Emilia e i suoi ragazzi. L’opera civile della fede”
Carate Brianza -19 novembre 2010
Questo è un libro corale. È un racconto fatto di tanti racconti. Sono circa un'ottantina di persone che narrano come Emilia le ha coinvolte dentro un'esperienza che è diventata amicizia e quindi storia, che raccontano di come Emilia le abbia rese partecipi di un suo desiderio che poi è diventato un'occasione per cambiare in meglio la vita di un'intera comunità. E questo è stato possibile grazie alla generosità dei primi, che all’inizio erano proprio gli amici più prossimi, Enrico Rigamonti, Patrizia Parodi, Maurizio Pozzi, Silvio Citterio, e poi Ian Farina, Franca Scanziani, Stefano Giorgi, Jacopo Vignali,adesso Davide Bartesaghi e ancora molti altri Si dovrebbe dire, con una parola più profonda, che questo libro è il racconto di una amicizia divenuta occasione di conversione per tutti coloro che ne sono stati toccati.
Il libro è diviso in tre parti: nella prima si narra della figura di Emilia, delle origini di In-Presa, della nascita dell'associazione, dei primi ragazzi che l’hanno frequentata, della scomparsa di Emilia, le esequie, la serata dell'asta dei vini che servì a raccogliere i fondi necessari per inaugurare la nuova e attuale sede. L'andamento è cronologico. Dalla metà degli anni Novanta al 2002.
Nella seconda parte che è intitolata “Dalla fede un metodo” si dà invece la parola ai protagonisti di In-Presa: gli imprenditori, gli educatori, le assistenti sociali, i ragazzi che oggi la frequentano.
A cavallo tra la prima e la seconda parte c'è un capitolo che spiega qual è il valore civile di un'opera come In-Presa e cioè come sia potuto accadere che le intuizioni educative di un'assistente sociale di Carate Brianza, una autentica “operaia della carità”, siano potute diventare un modello cui guardare per rendere più efficaci gli interventi nel campo dell'assistenza sociale, delle scuole di formazione, dell'inserimento lavorativo di ragazzi spesso considerati “irrecuperabili”.
La terza parte contiene vari documenti: le parole che Emilia pronunciò durante un convegno a San Marino nel 2000, il suo diario, un'intervista al Patriarca di Venezia Angelo Scola che è il sacerdote che celebrò sia il matrimonio sia il funerale (e di cui è riportata integralmente l'omelia); poi ci sono due brevi scritti: uno del fratello di Emilia, Carlo, e l'altro del marito, Giancarlo.
Il libro si apre con una prefazione scritta dal figlio di Emilia, Giovanni. In essa, Giovanni coglie un aspetto fondamentale del metodo educativo della madre, quando scrive che Emilia poneva la preferenza all'inizio del rapporto e non alla fine. All'inizio e non alla fine, perché alla fine potrebbe essere il premio che si accorda a qualcuno che ha meritato il nostro favore, la nostra simpatia, il nostro investimento. Invece per Emilia la preferenza sta all'inizio del rapporto: ti preferisco perché ci sei. Giovanni la chiama «simpatia originale» e io concordo con lui nell'individuare in questa mossa l'origine del metodo educativo di In-Presa.
Il libro si apre con la testimonianza delle figlie Caterina e Francesca che dicono che la madre si era particolarmente identificata con una frase di santa Teresina: «La mia vocazione nella Chiesa è l'amore». Il primo capitolo dettaglia come Emilia vivesse questa frase, occupandosi, semplicemente di chi incontrava nel suo lavoro di assistente sociale: le ragazze madri, i moribondi, gli adolescenti.
È stata mia premura mostrare come, prima che fondasse In-Presa, Emilia si muovesse nella realtà secondo una modalità chiara e precisa e di come poi, quando lei è entrata in contatto con alcuni adolescenti, questa modalità sia stata rivissuta. Ma Emilia non aveva intenzione di fondare alcunché: semplicemente, ad un certo punto, si è accorta che esistevano degli adolescenti di cui nessuno si occupava, quelli che oggi chiamano “drop out”. Anziché lamentarsi, Emilia iniziò a occuparsi di loro, coinvolgendo gli amici più prossimi, e prendendosene uno in casa in affido.
Da lì è nato tutto. Ma non è nato come un progetto. È nato come un gesto di carità. Quindi nel libro si raccontano le marachelle di questo ragazzo, le difficoltà a scuola, ma anche di una sua certa passione per i motori, sulla quale Emilia punta. Per questo, dopo la terza media, Emilia lo mandò a lavorare in una carrozzeria.
Qui c'è una delle intuizioni di Emilia: il lavoro come ambito educativo. Per Emilia tutto doveva farsi educativo nel suo ambito: la scuola, la famiglia, la bottega, le amicizie dopo il lavoro. Tutto è visto in unità e tutto è per un per sempre, non per un momento provvisorio. In-Presa nasce come luogo che condensa tutto questo: l'imprenditore, che è maestro, l'associazione, dove si recuperano le nozioni necessarie e un giudizio critico sull'esperienza, le serate assieme. Emilia chiedeva ai ragazzi di partecipare ai “raggi”, momenti in cui essi si incontravano e discutevano un tema che era stato proposto; Emilia conduceva la discussione e tirava poi le conclusioni, perché nella vita non basta provare, occorre fare esperienza e per fare esperienza bisogna giudicare quello che si prova. A un certo punto poi i ragazzi hanno chiesto di vedersi anche dopo la giornata di lavoro o di studio, esprimendo un desiderio: “vogliamo stare con voi”; c’è qualcosa che va al di là del bisogno contingente, per cui è nato il Circolo.
Come dicevo, la storia di Emilia e di In-Presa è la vicenda di un amore incondizionato, cioè di un amore gratuito, offerto senza l'attesa di una qualche ricompensa o riconoscimento sociale, nemmeno di un successo o di un tornaconto.
Non è una cosa da poco, anzi. Don Luigi Giussani, anni fa, descrisse la condizione dei giovani come quella di persone colpite da un “effetto Chernobyl”, cioè incapaci di un'affettività positiva. Ma si potrebbe dire che questa è un'aria che tutti respiriamo. Scola, nell'intervista, afferma che questa è l'era degli «uomini impagliati». Viviamo cioè in un mondo rachitico, in cui è sempre più complesso sostenere che l'affezione è la forma più alta di giudizio. Tra i tanti e bellissimi pensieri che Emilia ha consegnato al suo diario ce n’ è uno in cui dice: «Da acerba a bacata: questo è il modo in cui si esprime l’affezione di oggi. Cosa fare? Bisogna che ci sia qualcuno che sia già capace di amare».
E in un altro pensiero specifica: «Ma che cos’è l’amore? È prendere più iniziativa contro il velo della pigrizia».
Ecco, la storia di In-Presa è la storia di questo amore semplice che si dilata al mondo e che vince la sfiducia nichilista e la pigrizia dell'abitudine. Ma la cosa straordinaria è che tale amore non è figlio di un discorso, ma di una prassi quotidiana. Infatti è un amore che parte dalle mura di una cucina. Perché dico di una cucina? Perché quello era il luogo che Emilia più amava della casa, perché è l'ambito del fare e delle chiacchiere sincere che portano qualcosa di vero.
Questo particolare della cucina torna sempre nel libro e non è un caso. Una delle donne che lavorò con Emilia alla Mater Vitae, una struttura che si occupa di ragazze madri a Casatenovo e con cui Emilia collaborò prima di fondare In-Presa, racconta che Emilia riceveva queste ragazze accanto ai fornelli, ai fuochi. Perché, racconta, «Emilia parlava mentre faceva».
Mentre faceva il pangrattato, mentre accompagnava qualcuno a scuola o al lavoro, mentre allungava la mano per dare diecimila lire al ragazzo che aveva finito i soldi per la benzina del motorino, mentre imboccava un moribondo che le sputava addosso le bestemmie di una vita grama. La cucina è anche il luogo dove si dà da mangiare a chi ha fame e sete. Senza esagerare (non sono un tipo particolarmente religioso), ma evangelicamente potremmo dire che In-Presa ha la pretesa di offrire un'acqua e un cibo che soddisfi la fame e la sete di un senso della vita.
Ecco arrivati ad un altro dei capisaldi del libro e della vita di In-Presa: il senso della vita.
In-Presa è un luogo che non ha la pretesa di risolvere i problemi del mondo. Quelli, ci saranno sempre e nemmeno il più riuscito dei progetti sociali potrà porvi rimedio. In-Presa è il luogo dove si propone un cammino per scoprire insieme il senso della vita. E il senso della vita non è una teoria, nemmeno un buon lavoro retribuito, nemmeno una suggestione religiosa.
C'è un esempio nel libro che spiega bene questo punto. Capitò che il direttore di In-Presa, Stefano Giorgi, avesse affisso ad una delle pareti del Centro un cartello con scritto: «Il lavoro promuove l'uomo»; egli ne era molto fiero. Passando, Giancarlo Cesana lo lesse e poi commentò: «“Il lavoro promuove l’uomo”. Anche ad Auschwitz c’era scritto “Il lavoro rende liberi”! Non è il lavoro che promuove l’uomo, ma è il suo senso. Se non c’è il senso del lavoro, se non c’è il significato, non esiste neanche il lavoro. Si crede erroneamente che ci si debba dare da fare per essere amati, mentre la questione è che si fa perché si è amati. Cioè si fa perché si sa che cosa si è al mondo a fare».
Se c'è un senso c'è anche un per sempre.
Dice Giorgi nel libro: «Quel contrappunto di Giancarlo è stato molto importante per noi, perché ci ha fatto comprendere che non dobbiamo dare mai per scontato che “trovato il posto al ragazzo” è concluso l’ambito di intervento dell’educatore e incomincia quello dell’imprenditore, come se la vita fosse fatta a compartimenti stagni. Invece la vita è una. Come con i figli, diceva Emilia, anche con i titolari d’azienda, non si può mai dire “adesso basta”».
È una delle idee cardine di In-Presa: io e te siamo insieme per sempre. Il rapporto è per sempre, non è effimero. Per questo il progetto dell'assistenza sociale si può anche interrompere, il lavoro lo puoi anche perdere, tu, ragazzo, puoi essere meschino e scappare,oppure io, educatore, posso essere un traditore e non essere momentaneamente all'altezza della promessa che ti ho fatto. Ma il rapporto è per sempre. Per questo si può sempre ricominciare e questo è quello che fa In-Presa.
Per la fondatrice di quest'opera l'aiuto dato a quelli che con orribile definizione chiamiamo i «disagiati», non poteva prescindere dall'implicazione concreta con loro, con gli ingarbugliamenti della loro vita, con un'esistenza che aveva spesso più il sapore del sale che dello zucchero. Giancarlo, il marito, a conclusione del libro lo dice in maniera epigrammatica: «Il giudizio in lei non terminava mai nella definizione, ma nella dedizione».
Ma dobbiamo anche chiederci: come è possibile preferire in questo modo? Come è possibile amare di questo amore incondizionato? È un amore figlio di uno sforzo di bontà? È un amore figlio di progetto imparato in qualche corso dell'assistenza sociale? La domanda che con maggior frequenza mi sono posto scrivendo questo piccolo libretto è stata: come poteva Emilia e come possono oggi gli educatori e gli imprenditori di In-Presa amare di questo amore questi ragazzi che paiono così sonnacchiosi, chiusi e incapaci persino di alzarsi la mattina per recarsi a scuola o al lavoro?
Nel libro c'è una frase che più di ogni altra risponde al mio interrogativo. È quando il Giancarlo dice di Emilia: «Mia moglie proponeva la vita della comunità nella quale viveva». Cioè si può amare di un amore incondizionato solo se si è stati e si è consapevoli di essere l'oggetto di un tale amore incondizionato. Parafrasando un famoso motto si potrebbe dire che si può amare solo se si è amati. E l'amore di cui era stata investita la vita di Emilia non era un amore qualunque. È un amore molto preciso. È l'amore cristiano, che in lei s'era espresso nell'appartenenza al movimento di Comunione e Liberazione. Sinteticamente direi che è un amore figlio di un'appartenenza e di una gratitudine.
Da questo, discende tutto. Perché questo è un amore, cioè è una carità vissuta nell'ambito della fede che si fa metodo. E questo è un metodo che si basa:
1. Sull'accoglienza. Emilia e In-Presa aprono le porte a tutti e non si arrendono dopo i primi fallimenti. C'è la storia del primo ragazzo che arrivò a casa Cesana in affido diurno, e delle sue marachelle a scuola, quando cercava di vendere i carburatori alla professoressa, di un altro ragazzo che conobbe Emilia mentre cercava di venderle delle creme e dei prodotti di bellezza, dell'imprenditore di estrema sinistra che per primo assunse un gruppo di ragazzi di In-Presa, di quell'apprendista che fu licenziato dopo mezz'ora di lavoro, della banda che alla prima ora di lezione legò con lo scotch la professoressa di Inglese alla sedia. In-Presa appunto apre le porte a tutti, ma non per questo non taglia i rami secchi che vanno tagliati. Però ti prende sul serio, così come sei.
2. Ma l'accoglienza non basta. Occorre mettersi su una strada. Per questo In-Presa è un'opera educativa a tutto tondo. Lo è per i ragazzi, guardati secondo tutte le loro esigenze e bisogni, che siano i compiti o la patente per l'auto, il lavoro o la compagnia serale. La persona è una e va guardata nella sua totalità. A volte si tratta di giovani che hanno avuto percorsi scolastici tormentati, famiglie un po' scombinate, compagnie non esattamente raccomandabili. A In-Presa, non tutti, non sempre, ma molti imparano a dire, come uno di loro, che «A In-Presa ho capito che il mondo non ce l'ha con me». È un'opera educativa anche per gli imprenditori coinvolti, come molti di loro testimoniano nel volume, quando affermano di aver riscoperto il senso del loro lavoro. Un lavoro che può essere quello del falegname di provincia o dello chef del grande ristorante di Milano. È uguale. In-Presa non è un'agenzia di collocamento: non dice all'imprenditore: prendi questo giovane e dagli da lavorare, riempigli la giornata. È un'opera educativa che chiede all'imprenditore di farsi maestro. L'imprenditore è sfidato a capire che il mettere un improduttivo nel ciclo produttivo (dice ad un certo punto un imprenditore “ un granello di sabbia nell’ingranaggio”) è un'occasione anche per lui di riscoprire il senso del suo mestiere. Lo è infine per gli stessi educatori, continuamente sfidati a non soffocare l'esperienza sotto anche la più perfetta delle teorie.
3. In-Presa è un'opera che partendo da un metodo che ha le sue radici nella fede si dimostra adeguato ad affrontare le problematiche civili del nostro territorio. Da questo punto di vista, Emilia ha veramente precorso i tempi. I tre pilastri da lei individuati – la famiglia, il lavoro, la scuola – erano concepiti come tre ambiti non distinti, ma uniti. Perché una è la persona. L'aiuto deve quindi essere unitario e non a compartimenti stagni. In-Presa era assistenza domiciliare, inserimento lavorativo e affido familiare. Erano concepiti un tutt'uno e non in tre ambiti distinti come nell'assistenza sociale di qualche anno fa. Inoltre un altro dei punti fermi di In-Presa è che si guarda al singolo non alla classe. Come dice Jacopo Vignali, «a In-Presa si fa un progetto perché si ha un ragazzo, non perché si è in contatto con aziende che lo terrebbero in prova». Queste idee non erano così scontate fino a dieci anni fa. Non lo sono ancora in tante regioni italiane. Senza la lungimiranza della Regione Lombardia, che con il sistema della dote e con politiche sussidiarie ha valorizzato quanto di buono veniva vissuto dal territorio, oggi saremmo qui a raccontare un'altra storia.
4. Ma anche il miglior metodo sarebbe nulla se non ci fosse qualcuno che lo vive e lo fa suo. In-Presa è un'opera sostenuta da un popolo. L'esempio più chiaro lo si è avuto nei giorni del funerale di Emilia, dei tanti amici che furono vicini ai familiari in quei giorni, delle migliaia di lettere che arrivarono da tutto il mondo, e del fatto che fu addirittura necessario da parte della famiglia far circolare un avviso nel quale si chiedeva di mandare un solo componente per ogni comunità. Chi è qui di Carate si ricorderà quella folla immensa, commossa e discreta. Ma quel che è più significativo è che quella folla poi si è rivelata essere un popolo che ha fatto in modo che In-Presa potesse esistere, andare avanti, essere libera.
5. Da ultimo In-Presa è un'opera che esalta l'umano. Non è un'opera triste. È un'opera allegra. La storia di In-Presa è la storia di un'amicizia che, come dice Scola, «parte dai bisogni più semplici, ma ha di mira il soggetto universale». È un'opera fatta per questi ragazzi disagiati per ricordare a tutti noi, come dice Giancarlo, che anche noi siamo persone che nella vita hanno bisogno non di qualcosa, ma di tutto.
La promessa di In-Presa è che questi ragazzi diventino protagonisti della storia. E come dice Giovanni «In-Presa si è sviluppata per restituire a questi ragazzi, e ricordare a tutti noi, la consapevolezza che questa (cioè il diventare protagonisti della storia) è la nostra propria natura».