TESTO DELL'INTERVENTO DI FRANCO NEMBRINI ALLA SCUOLA POPOLARE DEL 29 NOVEMBRE 2011



Figli liberi di padri liberi

Intervento di apertura alla “Scuola popolare”

Carate Brianza, 29 novembre 2011




INTRODUZIONE
Questo è il primo ciclo di incontri che abbiamo voluto chiamare “Scuola popolare” e credo che quello che sta
accadendo stasera dica che avevamo indovinato il titolo. Nel volantino d’invito a questo ciclo di incontri,
sottotitolato “il rischio dell’educazione”, partivamo da una domanda che il poeta Thomas S. Eliot si poneva nel
1934: «Se gli uomini non costruiscono, come faranno a vivere?». Ci premeva dire che proprio in questo periodo
in cui la parola che compare per ogni dove (giornali, televisioni, etc.) è la parola “crisi”, è ancora più
interessante investire sulla questione essenziale che è l’educazione. È una sfida, questa, che coinvolge tutti,
docenti, studenti, genitori e che riguarda la società intera. Questo investimento sull’educazione è all’origine
dell’Istituto scolastico paritario don Carlo Gnocchi, sorto nel 1988 per opera di un gruppo di genitori, e del
Centro di formazione professionale In-presa, nato diciotto anni dopo dalla medesima passione educativa.
Noi docenti, insieme ai genitori, spesso ci sorprendiamo bisognosi di sostegno e conforto nella difficile
avventura dell’educazione dei nostri figli, e dico con piena consapevolezza i nostri, perché sentiamo tutta la
responsabilità verso chi entrando nelle nostre istituzioni ci viene affidato, affidato per un cammino di
conoscenza, di apprendimento, di scoperta di sé, delle proprie capacità e del mondo nel quale vale la pena
costruire. Lo scorso anno, ad un corso di formazione per gli insegnanti, avevamo invitato il professor Giancarlo
Cesana per un’assemblea sul rischio di educare. Lui concludeva con queste osservazioni: «Dobbiamo affrontare
la questione di come aiutiamo noi stessi, perché per aiutare gli altri, i giovani, bisogna che ci sia qualcuno che
aiuti noi, non dobbiamo pensare di essere arrivati ad un punto per cui non abbiamo più bisogno di nessuno ed
essere una specie di serbatoio da cui si cava la linfa nutritiva per gli altri, perché anche noi siamo per strada,
siamo in cammino, dobbiamo imparare, anche noi abbiamo bisogno di una scuola di un posto dove andare a
scuola». È proprio questa la proposta con cui iniziamo questa sera una scuola per noi adulti (genitori, tutor e
insegnanti), perché possa essere sempre più nostra l’avventura dell’educazione.



DOMANDA: Nel tuo libro "Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare "(Edizioni Ares,
Milano 2011), sostieni che «il termine “educazione” può essere identificato con una parola che indica
già un metodo: “testimonianza”. L'educatore non ha altro da fare se non testimoniare, rendere conto nei
fatti – non solo nelle parole – di un'esperienza di positività. L'educazione è una testimonianza. Quel
che i nostri figli hanno bisogno di vedere, quel che i nostri alunni hanno bisogno di vedere, è
esattamente questo: un adulto che sa ciò che nella vita bisogna sapere» (p. 41). Partirei da qui per
chiederti anzitutto chi sono stati per te i tuoi testimoni, e inoltre cosa vuol dire essere testimone per te,
che sei padre di quattro figli maschi e professore di molti studenti.



NEMBRINI: Prima di cominciare questo dialogo, ci tengo a precisare che non sono un esperto di
educazione, non ho scritto libri sull'educazione, "Di padre in figlio" lo devo ancora leggere. Non è una
battuta, in realtà questo libro è la raccolta di una decina di interventi come quello di stasera, fatti in
contesti diversi che qualche amico ha ritenuto utile raccogliere e pubblicare. Lo leggerò; per ora, mi
limito a partire dal titolo per rispondere alla sua domanda sui testimoni. Quando abbiamo pensato
all'ipotesi di pubblicare questo libro, avevo in mente un titolo diverso dall'attuale, che difendo tuttora:
"Ho visto educare". Proprio perché non ho ricette di nessun tipo da darvi o formule o discorsi
sull'educazione. Io quel che faccio andando in giro è raccontare quel che ho visto, quel che ho vissuto
da figlio, quel che ho vissuto poi da insegnante, poi da padre, perché mi è sembrato di vedere,
veramente, e ve lo giuro senza nessuna presunzione di non avere niente da insegnare a nessuno. Cerco
di raccontare quello che la vita mi ha fatto vedere, mi ha fatto capire. E in questo senso mi piaceva il
titolo "Ho visto educare", perché uno l'educazione prima di tutto la riceve su di sé, è oggetto di una
educazione, perciò si può educare. Non si può educare se non si è continuamente educati, non si può
essere padri se non si è continuamente figli. Volevo metterci la foto del mio papà e della mia mamma
sotto il titolo Ho visto educare, e invece c'è questa copertina con il papà felice in mezzo all'azzurro.
Avevo provato a suggerire anche un altro titolo alternativo, forse un po' graffiante ma che a me
piaceva: "Lasciateli stare" (sottotitolo: "A tutte le mamme d’Italia"). Mi hanno accusato di essere matto, gli
editori sostenevano che era un insulto e nessuno lo avrebbe acquistato, invece secondo me lo avrebbero
comprato i figli per regalarlo alle mamme.
Sono il quarto di dieci figli, il decimo nasceva quando il primo aveva quindici anni. Ho visto mia
madre e mio padre tirarci su e perciò ho delle immagini da raccontarvi, che spero siano utili per farvi
capire che cosa vuol dire che «ho visto educare», cioè che l'educazione è una testimonianza. A me
sembra di averlo già intuito o afferrato, fin da quando ero bambino, poi evidentemente l'ho capito e lo
so descrivere oggi. Un padre che ha dieci figli, che è affetto dalla sclerosi multipla a quaranta anni ed è
povero in canna, agli occhi di tutti è uno "sfigato", però io ho cinquantasei anni, mio padre è morto da
ormai quindici anni, eppure continuo a chiedermi come fosse stato possibile che in seconda media
potessi scrivere una frase come quella che ho trovato in un quaderno datato riemerso durante un
trasloco. Era una pagina bianca, quando l'ho vista è riaffiorato alla memoria con molta chiarezza quel
giorno che avevo voglia di prendere la penna in mano per scrivere quella frase. Non so se fosse una
preghiera, una canzone o una poesia, perché sulla pagina compariva solo una riga: «Signore, fammi
essere come mio padre». Adesso ho cinquantasei anni, e ancora mi chiedo come fosse possibile che un
ragazzino in seconda media desiderasse fortemente, veramente di essere come suo padre, che agli occhi
del mondo abbiamo definito come uno "sfigato". Occorre precisare che il mondo in cui ho vissuto non
era del tutto diverso da quello attuale, non coincideva con quello ritratto da Ermanno Olmi nel film
L’albero degli zoccoli. C'erano già le discoteche e la televisione, c'erano già il male, la violenza, la
menzogna, le crisi. La mia adolescenza è iniziata nel 1968, erano anni confusi e violenti, non era un
contesto facile, non mancavano le tentazioni. Alla domanda sul perché desiderassi essere come mio
padre, oggi viene da rispondere che lo volevo, allora come sempre (oggi lo desidero ancora più
fortemente), per la semplice ragione che mio padre, che non sapeva l'italiano, non sapeva fare i soldi,
non era furbo, non era tante cose, però sapeva le cose che nella vita bisogna sapere, sapeva della vita
della morte, della gioia e del dolore, della verità e della menzogna, del bene e del male. Guardando mio
padre, che non faceva prediche, non faceva discorsi, mi dicevo: «Lui lo sa». Osservavo intorno a me
quelli che erano più furbi, che stavano meglio, ma non mi convincevano alla stessa maniera. Mi
interessava quella saggezza, quella letizia che mio padre nel dolore, nella fatica, nella malattia mi
testimoniava in un modo clamoroso. Era assolutamente evidente che mio padre, che fischiava sempre,
viveva una letizia di fondo nella vita, per cui era come se mi incuriosisse, mi trascinasse.

L'ho capito ancora meglio quando sono diventato padre a mia volta. In particolare, c'è un episodio che
ha segnato la mia coscienza di padre, di educatore. Un episodio banalissimo, tuttavia un flash che nella
vita non mi ha più lasciato. Era una domenica pomeriggio, ero in sala e stavo correggendo i temi dei
miei studenti, quando all'improvviso, tirando su la testa, ho visto gli occhi di mio figlio Stefano, allora
di cinque o sei anni, che sporgevano oltre il tavolo. Lui era lì in piedi che mi fissava, forse da un
minuto o due, forse da più tempo. Non era venuto per chiedermi da mangiare o da bere, non era venuto
per un suo bisogno particolare, si limitava a scrutare in silenzio suo padre. Da quel giorno non mi ha
più lasciato l'intuizione che mio figlio in quello sguardo mi stava chiedendo una cosa semplicissima:
«Papà, assicurami che valeva la pena venire al mondo, ti chiedo solo questo, testimoniami una ragione
sufficiente di speranza, fammi vedere che la vita è buona, testimoniami un'ultima positività del
vivere». Sono cose che non si possono dire, non è che puoi dirgli della positività della vita: o la vivi o
non la vivi. Ma quella domanda non mi ha più abbandonato, non sono più riuscito ad andare in classe,
a guardare trenta ragazzi senza, incrociando il loro sguardo, sentirmi fare questa stessa domanda:
«Professore, lei per quale ragione si alza al mattino e viene a lavorare? La speranza della sua vita dove
poggia?». È in questo senso che dico che quando parliamo di emergenza educativa, dobbiamo far
subito fuori l'equivoco per cui il problema sarebbero i figli. Al contrario, il problema dell'emergenza
educativa non sono i figli, ma siamo noi adulti. Se non ci si intende su questo, rischiamo una falsa
partenza.

Benedetto XVI, in una memorabile lettera sull'educazione alla diocesi di Roma del 2008, ha scritto che
i bambini vengono al mondo fatti “da Dio”, cioè nascono ben fatti perché li fa proprio Dio e vengono al
mondo come tutti noi, come i nostri padri, i nostri nonni, bisnonni, come Adamo ed Eva. In particolare,
la natura, Dio, quando mette al mondo i bambini, li fornisce di quella dote che distingue l'uomo dal
cane e dal gatto, la ragione. Chiamatela biblicamente «cuore», chiamatela esistenzialmente «desiderio»,
chiamatela come vi pare, ma i bambini vengono al mondo con una tensione, una apertura alle cose, per
cui sperano, esattamente come noi, che la vita sia una cosa buona, non chiedono altro. Poi, fin dal
grembo materno, i bambini fanno ciò che devono fare, compiono il loro solo lavoro: guardare.
Guardano sempre. Ventiquattro ore al giorno i nostri figli ci guardano. Ci guardano quando sembra che
giochino, ci guardano anche quando sono a scuola, ci guardano anche quando dormono, ci guardano
sempre. Il problema non sono loro, il problema sono gli adulti che vedono, cioè siamo noi. Per questo
dico che l'educazione è prima di tutto una testimonianza. Se vedrò mio padre in paradiso (lui è su, io
non sono sicuro di andarci), lo ringrazierò per l'eternità perché si è occupato della sua santità, non della
mia. Perché mio padre aveva questo genio, come mia madre, ma come tanti dei nostri genitori, perché
descrivendo i miei genitori penso che riconosciate un po' anche i vostri. Mio padre aveva questo genio
educativo.

Faccio riferimento a due esempi e a una citazione tratta dalla Bibbia per spiegare cos'è l'educazione
come testimonianza. Primo esempio. Quando eravamo piccolini, vivevamo in un appartamento di
sessantadue metri quadrati, con una cucina dove c'era un tavolo di un metro quadrato che era una
specie di altoforno a ciclo continuo, perché (per fortuna) gli orari erano diversi tra asilo, elementari e
medie, per cui prima mangiavano quattro, poi altri quattro, poi altri quattro, e quando gli ultimi
avevano finito i primi cominciavano a far merenda, a ritmo continuo. C'era la stanza dei maschietti
(sei), la stanza delle femminucce (tre) e il piccolino nel lettone. La stanza dei maschietti comprendeva
due letti a tre piani, la mamma metteva gli abiti nei sacchi della spazzatura dietro la porta, perché non
c'era posto sufficiente per riporli nell'armadio. Né posto, né soldi. Quando mio padre alla sera veniva a
far pregare noi bambini, che ci tiravamo i cuscini come tutti i bambini, lui non entrava sbraitando:
«Dovete pregare!». Pregava lui, si metteva in ginocchio e cominciava «Padre nostro…». Potevamo
avere tre anni o sei, ma questa immagine ce l'ho stampata in testa, perché io che stimavo così tanto mio
papà, quando lo vedevo inginocchiarsi, mi chiedevo chi fosse così grande da meritarsi mio padre in
ginocchio. Chi è quell'essere misterioso che si merita mio padre in ginocchio? Deve essere una cosa
gigante. Mi veniva la curiosità di saper chi fosse uno così grande da meritarsi mio padre in ginocchio,
un po' come mi succedeva con la mamma quando mi portava a Messa.

È questo il secondo esempio. Quando la mamma andava alla prima Messa, quella delle cinque del
mattino (non l'ha mai persa una volta se non quand'era malata), sceglieva un figlio diverso tutte le
mattine per accompagnarla. Quando sceglieva uno di noi, il prescelto ci sentiva onoratissimo di questo,
ci commuovevamo per essere scelti. In questo certamente ha avuto una parte la cioccolata con la panna,
che vedevi solo in quell'occasione lì, per cui ti nasceva l'idea del cristianesimo come suprema
convenienza della vita, un'idea tutt'altro che sciocca. Quando doveva spiegare le cose al popolo, Gesù
faceva così: il Regno dei cieli veniva descritto come uno che ha perso una roba e la ritrova, come uno
che ha trovato un tesoro e perciò vende tutto quello che ha, acquista il campo e prende il tesoro. Gesù
descriveva il Regno dei cieli come il centuplo quaggiù: non male, con gli interessi che corrono oggi, la
promessa del centuplo quaggiù e della vita eterna. Gesù parlava sempre di una convenienza. I nostri
papà facevano così, ti educavano a una convenienza della fede. Ma la cosa che mi è rimasta più
impressa non è la cioccolata con la panna, è mia madre quando tornava dalla comunione. Perché lei ti
stava vicino tutta la Messa, ti faceva pregare e ti aiutava a capire, poi andava a far la comunione, col
suo velo, e la cosa che mi impressionava era che quando tornava tra i banchi si inginocchiava con il
viso tra le mani e, per cinque minuti, non c'era più. Allora mi affiorava alla mente la stessa domanda
che emergeva con mio padre: chi è che si porta via mia madre in questi cinque minuti per cui è come se
non esistesse più niente intorno a lei? Ricordo che andavo lì, con discrezione, per cercar di capire cosa
facesse, cosa dicesse, dove guardasse, per essere così rapita cinque minuti al giorno e aver poi come
esito quella letizia per tutto il giorno, con la vita che faceva (dieci figli senza elettrodomestici, non so
come abbia fatto). In una letizia continua, perenne, sempre, lieta, cantava. Mio padre fischiava, mia
madre cantava. Allora se tu vieni su con due genitori così, cominci a capire, lo dico un po'
ironicamente nel libro, che il segreto dell'educazione è non avere il problema dell'educazione. Avere il
problema della propria educazione, e basta. Poi i figli fanno il loro mestiere, cioè guardano, scelgono,
decidono, rischiano.

Quando noi abbiamo anche un'idea, magari giusta, in testa, e confondiamo l'educazione con la pretesa
di portare i figli da qui, dove non vanno mai bene, a qui, dove secondo noi andrebbero bene, è finita.
Perché i figli a questa pretesa si ribelleranno sempre. Nell'Antico Testamento, al capitolo sesto del
Deuteronomio, compare la forma più sintetica e più bella che abbia mai letto sull'educazione: «Quando
in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che
il Signore nostro Dio vi ha dato? [Traduco: quando tuo figlio a tredici, quattordici o quindici anni
comincia a dirti: «Caro papà, non me ne frega proprio niente della tua Chiesa, delle tue prediche, delle
tue preghiere, non vado più a messa»; oppure quando tuo figlio comincia a chiederti: «Ma scusa, papà,
perché bisogna essere giusti? Chi ha detto che bisogna far fatica? Perché bisogna essere onesti? Perché
bisogna dire la verità? Quando tutto il mondo dice esattamente il contrario, mi spieghi perché io dovrei
seguire questi precetti, questi consigli, questi suggerimenti che mi dai?» Allora, cosa rispondere?
«Perché sono tuo padre, Perché lo dice la Chiesa»? Cosa gliene importa! Oppure: «È un valore della
costituzione»? Cosa dirgli? Il problema è tutto qui. Non si può dirgli proprio niente, perché le parole in
educazione non servono, può essere solo una testimonianza. Infatti, la bibbia dice:] Tu risponderai a tuo
figlio: Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente
[…] per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci» (Dt 6, 20-23). Tradotto dal
linguaggio biblico a quello nazionalpopolare, vuol dire: «Caro figlio, sono un poveretto come te,
abbiamo lo stesso problema di essere contenti nella vita, lo stesso problema, cioè, che valga la pena
essere venuti al mondo. Ho fatto un pezzo di strada, ero nella stessa barca, ero nella stessa confusione,
vengo su anch'io nello stesso mondo come te, però io ho fatto delle scelte, ho fatto un'esperienza, ho
incontrato della gente, nel mio caso vivo la fede». Se mi diceste che siete tutti atei mangiapreti, vi
ripeterei le stesse parole, perché vostro figlio, come i figli degli altri, viene su fatto “da Dio” e a quella
domanda che mi pose mio figlio guardandomi a sei anni dovete rispondere tutti, atei, rossi, gialli, belli,
brutti. È la domanda della vita. Io ho una mia ipotesi che mi sembra convincente, quella della fede;
ognuno faccia i conti con la sua, ma un'ipotesi tu a tuo figlio la devi dare, e non gliene puoi parlare,
anche perché almeno fino a sette anni parlare non serve assolutamente a niente, e a sette anni i giochi
sono fatti, dipende tutto da quello che ha visto. La Bibbia dice che tu risponderai a tuo figlio
narrandogli la tua storia, dicendogli: «Figlio mio, fai quel che ti pare (questa è la frase che ho rivolto
più spesso ai miei quattro figli), però sii leale, guarda la vita che faccio, la vita che fa la mamma, i
nostri amici, fai qualche paragone con il mondo che vedi, e poi decidi, ma con lealtà. Se vuoi ti aiuto,
ma sii leale». Il brano della Bibbia citato in precedenza finisce in un modo stupendo: «Allora il Signore
ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio così da essere sempre
felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi» (Dt 6, 24). È la felicità del padre e della
madre l'unica cosa di cui hanno bisogno i figli. La felicità, cioè che l'esperienza nostra da adulti sia un
bene, sia una positività, sia una letizia, sia una vittoria sul male, sul dolore, sulla morte. Mio padre e
mia madre hanno fatto baluginare nella mia mente questa possibilità. È una testimonianza perché è
un'ultima positività che si afferma e che il figlio respira da quando è nella pancia della mamma. Io non
so come fanno, ma hanno dei sensori, prima ancora che parli loro sentono di che vibrazione vivono il
papà e la mamma. Sentono l'aria che gira in casa. La sentono, la respirano. E l'impronta che avrà la
loro personalità è determinata da quello, dall'aria che respirano, prima nella culla, poi ciucciando il
latte della mamma, poi la famiglia, poi la casa, poi gli amici, poi i parenti, poi la scuola materna, poi la
scuola, poi il mondo. Ma tutta la questione mi sembra essere questa: cosa guardano, cosa vedono, cioè
che testimonianza di bene diamo noi a loro, che dopo faranno il loro mestiere, guardando e giudicando.

Se non c'è chiarezza su questa premessa, tutto quello che si può dire sull'educazione è inutile, sono
strategie, costrizioni, obblighi, invece l'educazione è una misericordia. L'educazione non è mai: «Tu
non mi vai bene». Secondo me, è qui che sbagliamo, io per primo, perché non pensate che le cose che
dico riesco a viverle, ci provo esattamente come voi. Sbagliamo nel ritenere che sia scontato che
ciascun genitore o docente voglia bene al figlio e allo studente, senza neanche il bisogno di dirlo: «Ti
ho messo al mondo, e poi pensa a tutti i sacrifici che ha fatto il papà, che ha fatto la mamma». Lo
soffochiamo con i nostri sacrifici, che sono un ricatto morale. Che gli vogliamo bene lo diamo per
scontato, poi invece il rischio che corriamo nella vita quotidiana, nei rapporti, è che il giudizio di valore
che diamo sui nostri figli scaturisca piuttosto dalla valutazione che diamo di certe performance che ci
aspettiamo da loro, in particolare quella scolastica. Per cui assistiamo a questa incredibile malattia che
colpisce il 99% delle mamme italiane, che sono convintissime che la scuola sia una roba davvero
serissima. Quando, dal primo giorno della prima elementare fino alla quinta liceo, i figli vanno a
scuola, fanno fatica a scuola esattamente come noi a lavorare. Cinque ore in quei trenta centimetri di
banco, magari anche grandi e grossi al liceo, costretti lì cinque ore a sentire cinque discorsi diversi di
un'ora ciascuno. Sfido tutti a far la stessa vita. Quando vengono a casa e finalmente possono sgravarsi
del loro fardello – lo zaino dei libri –, lo gettano a terra. Giunge allora, immediata, la voce della
genitrice: «Ti ho detto che la cartella va messa al suo posto!». Ma questo è il meno. Il povero figlio
della mamma italiana media, al quale gli occhi escono dalle orbite per la fame, è lì che sta per inforcare
la pastasciutta liberatoria, salvifica, e la mamma gli pone la domanda fatidica: «Com'è andata a scuola
oggi?», per poi stupirsi che a quindici anni il ragazzo ha l.ulcera gastrica. E si arrabbia, la mamma,
perché il dialogo procede ogni giorno nello stesso modo: «Com.è andata?» «Bene!» «Cos'è successo?»
«Niente!». La mamma si arrabbia, quando va a parlare con i professori si lamenta delle risposte del
figlio. In realtà, dobbiamo imparare ad accorgerci del fatto che c'è un aspetto per cui nostro figlio non
ci va mai bene. È come se gli dicessimo sempre: «Ti voglio bene, però se tu cambiassi almeno in
questa cosa, ti vorremo più bene ancora!». È come dirgli: «Non possiamo volerti bene, fino a che non
diventi come pensiamo noi». E questo non aiuta a cambiare, anzi impedisce il cambiamento. Quello
che aiuta a cambiare, invece, è lo sguardo di un adulto che ti dice: «Figlio mio, mi vai bene, prima di
tutto mi vai bene, prima di tutto io darei la vita per te e la do, perché mi vai bene così». In questo
abbraccio c'è tutta la risorsa poi per cambiare, per correggersi, per insegnargli a studiare. Quel che
dicevo sull'importanza della scuola era una battuta, ovviamente (io lavoro a scuola, ne ho fondata una,
figurarsi se non credo nella scuola), ma tu devi poter guardare tuo figlio, e quello che diventa decisivo
nel tuo rapporto con lui non può essere il voto, non può essere la pagella, non può essere quel
maledetto «Comincia almeno a studiare, poi ti vorrò bene». C'è un aspetto per cui l'educazione è
misericordia, è un perdono. È quel che ha fatto Dio con noi. Se Dio avesse aperto le nuvole e, dando
giù un'occhiata, ci avesse detto: «Che schifo! Se cambiate un po' vengo giù, altrimenti no. Provate
almeno ad essere un po' più onesti e a dire un po' di più la verità». Se avesse fatto così, saremmo
rimasti bloccati. In questo sta l'amore, che Dio ci ha amati per primo mentre eravamo ancora peccatori.
Non si può dire a un figlio «ti voglio bene» se non partendo così. Chi è sposato lo sa, la fedeltà nel
matrimonio è possibile solo perché si capisce che l'amore sta alla fine della strada, non all'inizio,
perché la strada è un continuo perdono. «Ti voglio bene così, anche se sbagli, ti voglio più bene ancora,
ci aiutiamo». Se non c'è questa misericordia ritrovata come punto di partenza, tutto viene meno, anche
il valore della scuola, il significato del voto. I problemi della valutazione scolastica (boccio o non
boccio, valuto 4 o 5) implicano una riflessione – tutta da svolgere – su cosa voglia dire valutare, che
etimologicamente significa «riconoscere il valore». Valutare vuol dire riconoscere il valore che l'altro
ha: occorre un lavoro, tanto in famiglia quanto a scuola, per comprendere questo.

DOMANDA: Cosa vuol dire correggere nell'ambito di questo amore alla libertà del figlio, dello studente,
della moglie?

NEMBRINI: Correggere è difficile, l'etimologia della parola viene dal latino e significa «reggere insieme,
portare insieme». In fondo, «correggere» è ancora un modo per dire «misericordia». Non si può non
correggere, ma c'è modo e modo. Mi sembra fondamentale esortare i genitori a stare tranquilli, perché
si può sbagliare: non facciamoci prendere dal panico di indovinarle sempre tutte, perché tanto
sbagliamo. Sbagliate sereni, perché tanto non le indoviniamo mai tutte, come si fa a indovinarle tutte?
Pensate a un insegnante con trenta ragazzi, ma anche il genitore con quattro figli come me, quello che
andava bene per uno non andava bene per quell'altro, quello che andava bene oggi per uno domani è
sbagliato. Devi proprio inventare nuovi escamotage ogni giorno, e in questo siate molto sereni, si può
sbagliare. Si può sbagliare anche molto, perché i nostri figli ci perdonano molto di più di quanto
immaginiamo. Quello che non ci possono perdonare è l'assenza di speranza. Questo li condanna ad una
disperazione che non possono reggere. Ma quando tu hai davanti un adulto che è pieno di speranza lui,
e pieno di misericordia, tu perdoni tutti gli errori possibili. Non fatevi irretire dall'idea imperante oggi,
secondo cui per educare un figlio si dovrebbe avere a disposizione un'intera equipe. Se non c'è il
dietologo, lo psicologo, il pedagogo, il logopedista e per i cattolici anche il prete, insomma se non c'è
l'equipe uno non può far dei figli. Dopo trentasei anni di insegnamento, ho visto molti casi e inviato
molti alunni dallo psicologo, ma, per favore, non cadiamo nel tranello di pensare che per essere genitori
si debba avere delle competenze specialissime perché il mondo di oggi sarebbe particolarmente
difficile. La competenza che deve avere il genitore è quella che ho descritto prima, un'esperienza di
bene e di felicità per sé e per il proprio coniuge, questa è la competenza da avere, dopo tutti gli
strumenti vanno bene, se c'è bisogno si va anche dallo psicologo, ma finché Dio si fida di noi per
mettere al mondo i suoi figli, fidiamoci un po' anche noi. Dopodiché sbagliamo, è chiaro, ma i nostri
figli già a tre anni cominciano a capire che la loro mamma è una poveretta come loro, e loro papà pure.
Non c'è niente di più ridicolo, di più triste e di più patetico di un papà che volesse vendersi come
perfetto agli occhi dei figli. Farebbe ridere, anzi piangere, anche perché è così bello poter sbagliare
anche davanti ai propri figli: di cosa abbiamo paura?

Racconto sempre questo episodio che accadde a me quand'ero piccolino. Voi sapete che nei famosi
sessantadue metri quadrati, d'inverno, certe giornate dovevano essere molto dure. Alcune volte mio
padre arrivava a casa e con un'occhiata si rendeva conto se i figli avevano fatto i bravi o no (morti,
feriti, vetri rotti, la mamma con i capelli in aria), bastava poco. E se era una di quelle giornate là, non ci
pensava più di tanto, prendeva la cintura dei pantaloni e colpiva il primo che passava. Una volta è
toccato a me. Arrivato a casa alle sei di sera d'inverno dopo aver fatto i compiti a casa di un amico, mi
fermo sul pianerottolo pochi secondi, il tempo di togliere la cartella e di appoggiarla giù. Dietro di me
c'era mio padre, ma non l'avevo visto. Era una di quelle giornate "no". Lui tira fuori la cintura e
incomincia a picchiarmi, dopo che ero appena entrato. Mia madre è corsa in mio soccorso urlando:
«Dario, Dario, cosa fai! Franco non c'entra niente, è appena entrato!» Mio padre non ha fatto una
piega, mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto: «Va bene, mettile via per la prossima volta».
Altro che «Povero bambino traumatizzato!» Mi sono arrabbiato moltissimo, ma non con lui, bensì con
me stesso, e ho capito che bisogna essere molto più veloci a sgombrare il terreno in certi giorni in cui
tira una cattiva aria, non bisogna farsi pescare in giro così. Ma che mio padre mi volesse bene, non l'ho
messo in dubbio neanche un secondo. Eppure, avevo patito un'evidente ingiustizia, aveva
evidentemente sbagliato, come tante volte ha sbagliato mia madre, ma questo non ha mai spostato di
una virgola la stoffa del rapporto che c'era tra noi. È solo un piccolo esempio, però secondo me su
questo possiamo davvero essere molto agili. Sbagliamo pure, perché tanto i nostri figli sanno che
sbagliamo. Piuttosto, la cosa su cui ci devono vedere impegnati, quella su cui non possono permettersi
di perdonarci, perché li condannerebbe a una disperazione cieca, è l'assenza di speranza.

Rispondo così anche a una domanda che mi viene rivolta spesso: «Pensi che i figli di oggi siano molto
diversi da quelli di una volta? Cos'è cambiato? Perché è così difficile educare?» La mia risposta è che i
figli non sono cambiati, nella sostanza sono come noi, per le ragioni prima enunciate, però in questo
mondo certamente soffrono. Questa è la generazione che ho visto soffrire di più per diventare grande,
questi nostri figli soffrono maledettamente, sono proprio profondamente tristi, e quando si è tristi si
diventa cattivi, non si può rimanere a lungo tristi senza diventare cattivi. Per essere buoni bisogna
essere molto felici, come dice il grande Dante: «Questa cara gioia / sopra la quale ogne virtù si fonda»
(Par. XXIV, 89-90). La virtù si fonda sulla gioia, e siccome questa è una generazione molto triste,
perché eredita la tristezza dei padri che siamo noi, è anche una generazione che soffre tantissimo. Non
mi sembra più violenta di quanto lo fosse la nostra, o se lo è, lo è contro sé stessa. Ci sono disturbi
alimentari, angosce, crisi di panico, e qualsiasi psicologo potrebbe confermare i dati, c'è un estendersi
allarmante di queste patologie che sono un modo con cui questa generazione si fa del male, fa del male
a sé stessa, non si sopporta, non si piace. È una generazione che non si piace, perché è sotto lo sguardo
di adulti a cui non piacciono. Una volta un ragazzo mi disse: «Io ho solo bisogno di una cosa, di una
casa dove non si abbia schifo e non si abbia paura di quello che sono». Questa generazione percepisce
che la propria casa, la propria scuola, i propri educatori, i propri adulti hanno o schifo o paura di essa, e
invece ha bisogno di adulti così in pace con sé stessi, così sicuri di quello che vivono da non avere né
paura né schifo di quello che i nostri figli sono. Per questo, solo dal perdono, solo dalla misericordia
può cominciare l'educazione.

DOMANDA: Le chiederei di approfondire la questione della libertà.

NEMBRINI: La libertà è una cosa seria. A due genitori santi, non è affatto detto che corrispondano figli
santi, perché c'è di mezzo la libertà; vale anche il contrario, per la stessa ragione. È il mistero della
libertà, è una cosa così seria in educazione che non si lavora che per questo, per educare la libertà, per
salvare la libertà. Una volta mi trovavo a Domodossola, in una assemblea come questa, quando si alza
una mamma che scoppia a piangere e racconta di sua figlia con un disagio inenarrabile, una storia di
devianza e di droga. Quella donna mi chiedeva quale fosse il punto in cui doveva intervenire con la
forza per bloccarla e salvarla, cosa che riteneva parte del suo dovere di madre. Sono rimasto interdetto
da una madre che raccontava una pena infinita per una figlia che lei vedeva consumarsi, buttarsi via;
per qualche secondo sono rimasto pensieroso, non sapevo bene cosa dirle. Dalle prime file si alza la
mano di una suora molto anziana, la quale chiede di rispondere. Racconta di quando portò da don Luigi
Giussani una donna che le aveva posto una questione simile, cui nemmeno lei sapeva rispondere, alla
quale don Giussani aveva detto che quel punto non esiste, perché se Dio che ha dato suo figlio per noi,
se Dio, che ci ama infinitamente di più di quanto noi possiamo immaginare, ci permette di andare
all'inferno, non ci salva per forza, allora lei non poteva fare questo con sua figlia. Questa risposta, da
quando l'ho sentita sei mesi fa, mi accompagna come una domanda, perciò la riporto in questi termini.
Occorre lavorarci su per capire che se Dio ci salvasse per forza, contro la nostra libertà, otterrebbe dei
burattini, dei gattini, dei cagnolini, ma non degli uomini, non degli uomini liberi. Noi con i nostri figli
dobbiamo probabilmente procedere nello stesso modo.
In questo ci soccorre la parabola del figliol prodigo. Noi pensiamo sempre alla conclusione della
parabola, mai all'origine della vicenda narrata in essa, cominciata quando il figlio minore va dal padre
e gli dice: «Caro papà, di tutte le sciocchezze che mi hanno insegnato al don Gnocchi, di tutte le
preghiere, di tutti i ritiri, di tutte le Ave Maria, non mi importa più nulla, voglio andare a buttar via la
vita, voglio andare a fare la prostituta, voglio andare a drogarmi, voglio andare a ubriacarmi tutte le
sere, voglio buttarmi via. Dammi la parte dei beni che mi spettano, perché voglio andare a buttar via la
vita». Quel padre l'ha lasciato andare! È Dio, eppure l'ha lasciato andare. Mi sembra che noi siamo
tentati da due atteggiamenti rispetto ai quali ci sembra di fare il bene del figlio, mentre invece lo
roviniamo. Il primo è la scelta autoritaria: «Vuoi andar via? Non se ne parla! Fuori il mondo è brutto e
cattivo, tu ti rovini, io sono tuo padre, ho dei doveri verso di te, tu non ti muovi di qui, chiudo a chiave
porte e finestre ma tu resti qui». Si tratta di una soluzione solo apparente, perché si può costringere un
figlio a vivere sotto lo stesso tetto, ma a distanze siderali, per cui così lo si perde comunque, anzi
probabilmente questi coverà un odio così profondo nei confronti dei genitori che non si sa dove possa
condurre. L'altra soluzione, che mi sembra più in voga oggi, è quella del papà che fa l'amico: «Ma
certo figlio mio, come ti capisco, sono stato giovane anche io, vengo con te, (così gli sto vicino, lo
controllo)». Il problema di questa infamissima scelta è che quando quel figlio dovesse ravvedersi
seriamente – immaginiamolo lì coi porci che pensa: «Che stupido sono stato, se penso che nella casa di
mio padre, persino i servi hanno di che mangiare, cioè sono più liberi di me. Ho sbagliato tutto, mi
alzerò, tornerò alla casa di mio padre e gli dirò: “Padre, non sono degno di essere chiamato tuo figlio”»
– allora tutto convinto e fervoroso si alza, ma girata la testa si accorge che suo padre è lì con lui, in
mezzo ai porci, cioè non c'è una casa a cui tornare. Non c'è più chi ci perdona. Questa è la fine.

Don Giussani ne "Il rischio educativo" definisce «funzione di coerenza ideale dell'adulto» il fatto che io
devo soffrire ma devo tollerare che il figlio si ribelli. A una certa età particolare i figli lo fanno di
mestiere, quel “tira e molla” che tira proprio i nervi. Lo fanno apposta, stanno vedendo, stanno
provando se possono essere uomini liberi, fiduciosi di una casa dove poter tornare quando andasse
male. Ma ciò per cui possono rischiare e scommettere la loro libertà (lo sanno sempre come va a finire,
anche loro) lo trovano nel fatto che una casa comunque c.è, resta. Il padre la madre sono questa roccia
a cui, male che vada, possono sempre ritornare. Ma bisogna lasciarli andare, questo è l'amore alla
libertà. Non a caso, don Giussani genialmente ha intitolato il suo libro "Il rischio educativo" riprendendo
l'ultima delle parole che costituiscono l'ossatura di quel testo, perché o si arriva fin lì, a questo rischio,
o non se ne viene fuori.

DOMANDA: Cosa sosteneva tuo padre e tua madre?


NEMBRINI: Evidentemente la fede. Però questa domanda mi dà l'estro per dire una cosa secondo me
importantissima. L'ambiente in cui sono cresciuto era almeno per certi aspetti un altro mondo. Sono
realista, mi rendo conto che il mondo di adesso è un "casino" e tirar su i figli è veramente difficile,
perché è cambiato completamente il contesto. Quando ero bambino, se in giro per il paese commettevo
qualche sciocchezza, il macellaio che attendeva i suoi clienti fuori dal negozio – se mi trovavo a
passare di lì – mi dava un calcio nel sedere che avrei ricordato per una settimana. Si permetteva di
mettermi le mani addosso. Muovendomi in paese, sentivo alleato il mondo degli adulti, alleato a mio
padre e a mia madre nel correggermi. Non so ancora spiegarmi come mia madre, con dieci figli, senza
uscir di casa, potesse sapere tutto quando arrivavi a casa alla sera. Non c'era il telefono, ma lei sapeva
tutto. Il contesto era importante, non così fortemente negli anni Sessanta o Settanta, ma quand'ero
bambino certamente sì. Oggi non è più così. Questo introduce un problema capitale nell'educazione di
oggi che apre alla questione della opportunità, necessità, decisività di una scuola di un certo tipo, come
il don Gnocchi o In-presa, perché se tu, in un contesto come questo, non hai degli alleati, puoi essere
la famiglia più bella e più santa del mondo, ma sei morto.

Anche questo l'ho imparato a mie spese, perché ci sono delle cose o delle domande che i figli fanno
che bisogna segnarsi e non dimenticare mai più. Una volta Andrea, il secondo dei miei figli, che è un
tipo tosto, mentre mangiava la minestra era cupo, pensieroso, quando d'improvviso si interrompe e
mi chiede: «Papà, ma tu ci stai tirando su normali?». Evidentemente era una domanda seria. E ha
incalzato tutta la sera, usò questa espressione ad un certo punto: «Non vorrei che tu mi tirassi su inabile
alla vita sociale». E la motivò così: «Mi sembra che hai ragione nel dire certe cose, sono contento di
vivere in questa casa, con te e con la mamma e i miei fratelli, mi piace. Però devi riconoscere che fuori
il mondo fa esattamente il contrario, la scuola, i telegiornali, la televisione». Ricordo che quella sera
con mia moglie Grazia discutemmo a lungo di quella domanda, perché nostro figlio ci stava chiedendo
di fargli vedere che c'è un mondo, in questo mondo, che non è il mondo della televisione, sarà
minoritario sarà piccolo, ma c'è. Mio figlio mi stava chiedendo di fargli vedere che il tipo di vita che
faccio io la fanno anche degli altri, che ci sono altri luoghi, altri posti che cercano di vivere quella cosa
che viviamo in casa mia e che quindi lui poteva sfidare il mondo intero forte della vivibilità di questa
proposta. Proprio in quell'anno incontro un sacerdote, padre Bepi Berton, saveriano, che in Sierra
Leone raccoglie ed educa i bambini soldato, il quale mi chiede di ospitare un suo ragazzo. Io lo ospito
per un anno, e a Natale questo ragazzo torna in Africa e invita me e mia moglie a seguirlo. C'era un
albergo, o meglio doveva essere stato un albergo tanti anni prima, in quel momento era il centro dei
bambini soldato, dove di notte al piano sotto quello in cui dormivamo io e mia moglie i residenti
ammazzavano i cobra infiltratisi nell'edificio (di notte sentivi i rumori, al mattino ti facevano vedere il
serpente che avevano ammazzato). Senza luce, senza corrente, senza acqua. Tornati a casa, io e mia
moglie e cominciamo a darci da fare, com'era inevitabile. Il commento più benevolo dei miei figli fu:
«Ci mancavano solo i negri». A quel punto che fare? Una predica sui bambini dell'Africa che non
hanno da mangiare? Piuttosto, mi son fatto prestare dei soldi dagli amici, perché non li avevo, e il
Natale seguente, invece di andare da solo con la moglie, ho portato con me anche i quattro figli in
Sierra Leone. Non è indispensabile far questo, a me è andata bene perché quando siamo venuti via
dopo un primo viaggio mio figlio Stefano disse: «Papà, ti ringrazio perché mi hai fatto vedere un pezzo
di paradiso all'inferno», mentre Marco, che era in quel momento il più difficile da gestire, mi disse
durante il viaggio aereo di ritorno: «Papà, immagina che d'ora in poi io giri per casa con un cartello con
su scritto: “Se mi lamento, sparatemi”». Torni da un'esperienza del genere che la tua famiglia non è più
la stessa di quando sei partito, perché un'esperienza così lascia un segno così clamoroso che i figli
tornano e cominciano ad avere il sospetto che forse le cose che insegnano il papà e la mamma non sono
le loro fissazioni, perché c'è Berton, c'è quel pezzo di paradiso là, e poi ci sono tanti amici, gli amici
degli amici, la comunità, l'oratorio, la Chiesa, In-presa. C'è un mondo, ma loro hanno il diritto di
vederlo, altrimenti non possono crederti, non vengono su con gli attributi, non vengono su coraggiosi.
Questo diventa un modo con cui si usano i soldi, il tempo, le ferie, la casa, la macchina. Tutto ciò,
posso assicurarlo, cambia la vita, ma che bello poter far così! Che bello quando dici ai figli: «Ragazzi,
domenica prossima c'è la festa dei santi, primo novembre, perché non andiamo a trovar qualche santo?
Ne conoscete qualcuno?» Io pensavo di fare una battuta, invece Andrea mi disse che sì, ne conosceva
uno e si poteva andare a fargli visita. Mi portò da un suo amico che aveva conosciuto in università,
Nicola Fambri, che è morto due mesi dopo la nostra visita. Quando siamo arrivati in casa di questo
ragazzo, già paralizzato, completamente afono, orfano di padre, sua madre era al telefono con un'amica
alla quale raccontava la durezza degli ultimi giorni: «Ah, sapessi che settimana, Nicola è stato male
tutte le notti». Il figlio si agita tutto, si fa portare il block-notes e scrive: «Parla per te». Se qualcuno mi
chiedesse se ho mai visto Dio qualche volta nella vita, risponderei di aver visto a volte qualche
testimone di una presenza assolutamente straordinaria che ti fa dire che questo è Gesù, e quella volta lì
m'è successo così.
Quando tu vedi una cosa così, la famiglia che hai portato su al mattino non è la stessa che porti a casa
alla sera. Certo, è un modo a cui pensi alla domenica, alla macchina, ai soldi eccetera. Questa
solidarietà, tra chi questo bene comincia a viverlo, si può cominciare. Può rinascere un popolo buono,
di gente buona, non perfetti (siamo tutti poveretti), ma gente buona perché vuole il bene per sé, per i
propri amici, per la propria casa, per i figli degli altri. Sente il male del mondo e dice: «Qualcosa lo
posso fare anch'io». Di questo hanno bisogno i figli, non che siamo lì a “rompere le scatole” sette sere
a settimana, hanno bisogno di un papà che sta fuori sei sere alla settimana ma, quella sera che c'è, ha
tante di quelle cose da raccontare che i figli li travolge. Certo, devi avere una donna che non dice sei
sere alla settimana: «Quello stupido del papà è fuori anche stasera», ma dice: «Papà è fuori perché l'ho
mandato io», come ha sempre detto mia moglie Grazia ai miei figli. Quando chiedevano dove mi
avesse mandato, lei rispondeva: «È andato là perché c'erano altre mamme, altri papà che avevano
bisogno». Così coi figli tu non ci sei, ma ci sei.



(Appunti non rivisti dall’autore)

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